Santuario del S.S Salvatore

Il Santuario del Santissimo Salvatore sorge sulla sommità di un monte isolato…

Il Santuario del Santissimo Salvatore sorge sulla sommità di un monte isolato dal resto della catena montuosa, a m. 954 di altitudine. Domina, quindi, tutta la vallata sottostante. “E’ un luogo indimenticabile, per chiunque vi sosti in meditazione, ci si sente sospesi tra terra e cielo…” (E. Volpe)
Si raccontano miracoli e prodigi legati al santuario e al Gesù giovinetto, come quello del pozzo del miracolo, situato proprio nel piazzale del santuario, in cima alla montagna, da cui è possibile attingere l’acqua.
Ogni anno il santuario è meta di pellegrinaggio, in particolare il 6 Agosto non solo da parte dei Montellesi, che lo considerano il loro protettore, ma anche dagli abitanti dei paesi limitrofi. Infatti, molti sono quelli che risalgono la montagna del santuario a piedi, in segno di devozione. Partono di notte da paesi lontani anche 30 km per ritrovarsi la mattina dopo, per la funzione religiosa.

Un’altra “tradizione religiosa” legata al santuario è quella di suonare almeno una volta all’anno la sacra campana del peso di circa 20 quintali, fusa nel 1849 dai Fratelli Marinelli di Agnone. La campana

viene suonata a doppio rintocco da almeno 4 persone e nelle sere d’estate è possibile sentirne il suono anche a 20 km di distanza.
La facciata del Santuario è stata completamente ristrutturata nel 1979, si presenta molto semplice ed essenziale. L’ingresso dell’attuale chiesa settecentesca è preceduto da tre arcate con colonne che immettono in un piccolo atrio; da qui si accede al Tempio e, già entrando, si è toccati da un’atmosfera di sacro e silenzio, che emoziona.
Di bellissima fattura è l’altare del 1789, opera di un “mastro” marmoraio napoletano, vero gioiello, in marmi policrorni fusi armonicamente, e con al centro del paliotto l’immagine a rilievo del Salvatore. L’iconografia del Salvatore è quella del Gesù della Trasfigurazione, che nella rappresentazione popolare ha assunto le sembianze di Gesù giovinetto. La statua lignea policroma ne è un bellissimo esempio.

Molto belle sono anche le cinque vetrate artistiche che rappresentano alcuni episodi del Vangelo e la Madonna della Neve. NeI 1995 è stato situato a sinistra entrando, il bel mosaico che rappresenta la

Trasfigurazione e che ricorda il gemellaggio tra il Santuario e la Basilica del Tabor in Israele. La porta centrale d’ingresso, fusa in bronzo con sei formelle a bassorilievo raffiguranti la storia del Santuario, fu inaugurata nel 1979 in occasione del secondo centenario degli avvenimenti miracolosi.
E’ un’opera dello scultore P. Tarcisio Musto, il quale ha anche realizzato il bel Gesù Risorto, che, nel Sacrario dei caduti in guerra, si slancia con volto gioioso, sprigionante una particolare luminosità. Le altre due porte laterali, sempre in bronzo, sono state modellate dallo scultore Antonio Manzi, nativo di Montella, ma operante a Firenze. Rappresentano i momenti salienti dell’opera di Redenzione: l’Annunciazione, la nascita di Cristo, l’Ultima Cena e la Crocifissione.

Un’altra opera di pregio recentemente collocata presso il Santuario è un monumento ideato dal maestro Manzi, alto oltre quattro metri e ottanta centimetri, ha per titolo “IL CAMMINO DELLA SPERANZA”. Esso si erge come un albero contorto da una base di massi calcarei che vogliono rappresentare l’aridità della vita nel luogo di nascita. Da esso partono

le radici contorte dell’albero. Gli uccelli migratori sono il simbolo della speranza. La tortuosità del tronco dell’albero rappresenta il difficile cammino dell’emigrante in terre sconosciute. I volti che si affacciano dal tronco simboleggiano la sofferenza iniziale degli emigranti. Salendo il fusto si allarga a forma di calice simbolo della speranza. Le mani che sorreggono la famiglia rappresentano la solidarietà tra gli emigranti. Il fanciullo stretto tra i genitori rappresenta la fertilità e la continuità della vita. La sommità del monumento, con la famiglia unita e felice, rappresenta il raggiungime

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San Francesco a Folloni

Il convento di San Francesco a Folloni deve il suo nome al luogo dove…

Il convento di San Francesco a Folloni deve il suo nome al luogo dove, a quanto sembra, fu fondato dallo stesso San Francesco d’Assisi, di passaggio verso il santuario di San Michele sul Gargano, nel gennaio 1222 (il bosco di Folloni). Sembra che allora il Santo avesse lasciato alcuni suoi confratelli nel bosco infestato dai briganti perché vi realizzassero la prima chiesetta, dedicata alla S.S. Annunziata.
La prima chiesetta duecentesca doveva trovarsi ove ora si trova l’edificio che ospita le celle dei frati. Nel XV secolo viene realizzata la seconda chiesa, che si trovava ove ora si trova il chiostro di accesso al convento, ad una nave con numerose cappelle laterali. Tra la chiesa duecentesca, integrata nel convento, e quella quattrocentesca venne poi realizzato il refettorio, attuale biblioteca.

L’odierno complesso architettonico è frutto di un rinnovato intervento edilizio della metà del Settecento. I lavori consistettero nella costruzione di una nuova chiesa in stile barocco-rococò, ruotata di circa 90º rispetto alla precedente e realizzata più alta di 180 cm. Della chiesa tre-quattrocentesca rimane l’esonartece, ora portico di ingresso al convento, l’abside, oggi Cappella del Crocifisso, che di fatti si trova ad un livello inferiore, e il campanile che conserva l’impianto della seconda metà del XV

secolo. Allo stesso programma edilizio appartiene il chiostro, interposto ai due ambienti precedenti, che ha occupato il luogo dell’antica chiesa, sin dal Trecento annessa al chiostro, oggetto della recente indagini di scavo.
Tutta la restante parte della fabbrica è relativa agli spazi conventuali amministrati dai Frati Minori Conventuali, insistenti anch’essi su aree frequentate già dalle prime comunità religiose.
Nella chiesa settecentesca, di grande pregio gli stucchi di Francesco Conforto e il pavimento maiolicato datato 1750. Nella sacrestia, il sarcofago di Diego I Cavaniglia, conte di Montella morto nel 1480 nella battaglia di Otranto, opera di Jacopo della Pila. Incastonata nel pavimento del lato Est del transetto, la lastra sepolcrale della contessa Margherita Orsini, moglie del conte Cavaniglia, morta nel 1521. A destra dell’altare della chiesa, nella Cappella del Crocifisso, sono conservati gli ultimi frammenti del sacco, che secondo la leggenda contenne il pane che San Francesco inviò per i suoi frati tramite gli angeli, per sfamarli dal rigido inverno per conoscere meglio questo racconto è possibile leggere la scheda di approfondimento dedicata.
Annessa al museo è la Biblioteca. Istituita nel XV secolo, fu saccheggiata dopo la soppressione del convento in epoca napoleonica. Ripristinata negli anni trenta

del secolo scorso, ospitata nella sala cinquecentesca dell’ex refettorio, conserva opere edite in Italia e all’estero dai primi del Cinquecento a tutto il Settecento. Conserva attualmente circa 20.000 volumi.
Il Chiostro del Convento di s. Francesco è a due ordini ed è stato realizzato nel cinquecento da maestranze locali in breccia irpina. Quello attuale non è il sito originale poiché durante i lavori di ristrutturazione dell’intero complesso eseguiti a cavallo tra la prima e la seconda metà del 1700 fu smontato dal chiostro della cisterna e situato dove si trova attualmente, occupando la navata della chiesa duecentesca. Il chiostro è molto raccolto ed è apprezzata la sua eccellente acustica, motivo per cui durante l’estate vi si organizzano manifestazioni artistiche di vario genere.
Nel 2004 grazie alle ricerche di Fra’ Agnello Stoia, guardiano del Convento, si viene a conoscenza del fatto che nel 1980, durante i lavori di consolidamento successivi al Terremoto dell’Irpinia, alcuni operai avevano rinvenuto uno scheletro nei pressi del sarcofago che avevano avvolto in una busta di plastica e riposto in una cavità del muro retrostante il monumento di Diego I. La busta con i resti e con gli indumenti funebri viene ritrovata nello stesso posto in cui era stata riposta. La notizia ha grande risalto e si avvia una

campagna di ricerca per accertare l’appartenenza dei resti al Conte Diego I Cavaniglia, feudatario di Montella dal 1477 al 1481, morto nella battaglia di Otranto contro i Turchi. Il restauro degli indumenti affidato alla dottoressa Lucia Portoghesi rivelò che si trattava di una giornea e di un farsetto del XV secolo, confermando l’enorme importanza a livello internazionale della scoperta. Lo studio dello scheletro viene affidato alla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, che confermò che i resti appartenevano ad un individuo di sesso maschile, di circa trent’anni, alto pressappoco 175 cm e di prestante struttura fisica; tutti elementi che, accanto ai risultati di osservazioni e analisi più complesse, basate anche su precedenti analisi del DNA dei componenti della corte aragonese, hanno permesso l’attribuzione dello scheletro rinvenuto nel convento di San Francesco al conte Cavaniglia.
Nella attuale sacrestia si trova il sarcofago di Diego I Cavaniglia, realizzato dallo scultore Jacopo della Pila per volere della vedova, è stato adottato a monumento degli innamorati.
La contessa vedova Margherita Orsini, infatti, nonostante fosse stata costretta a risposarsi, alla sua morte, nel 1521, volle essere sepolta accanto al primo marito, ai piedi del suo sarcofago (la lapide della contessa venne poi spostata a seguito dei

lavori del XVIII secolo e posizionata nell’ala destra del transetto, dove si trova attualmente).
Lo schema di riferimento per il sepolcro di Diego, sempre per la critica più recente, andrebbe riconosciuto nella tomba del vescovo Piscicelli della cattedrale di Salerno, opera documentata del della Pila: in entrambi i casi il giacente posto su una cassa decorata con clipei inghirlandati coronata da un baldacchino e sostenuta da virtù cariatidi. Qui a Montella i rilievi nei clipei raffigurano San Pietro, la Madonna col Bambino e sant’Antonio, e le cariatidi la Prudenza con il tradizionale serpente (il serpente deriva da Matteo (10,16), “…siate dunque prudenti come i serpenti”), la Giustizia con la spada e il globo (la spada è l’emblema del potere di questa virtù, il globo simboleggia il suo dominio sul mondo) e la Temperanza con le anfore (nel Medioevo il temperante era colui che si asteneva dal bere; perciò questa virtù era già da tempo rappresentata da una figura femminile che versa un liquido da un’anfora in un’altra mescolando il vino con acqua). A mano ed epoca del tutto diverse apparterrebbero, invece, i due angeli reggicortina.

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Il castello del Monte

Il Castello del Monte è così chiamato perché si erge su di un monte che domina la città…

Il Castello del Monte è così chiamato perché si erge su di un monte che domina la cittadina di Montella, situata nella valle ai piedi delle montagne.
Il castello fu edificato dai Longobardi sui resti di un precedente fortilizio romano ed è menzionato per la prima volta in un documento risalente al 762 d.C.

Di recente è stato completato il restauro del Donjon ed è possibile visitarlo.
Inoltre, all’interno della cinta muraria gli scavi archeologici, diretti dal prof. Rotili per conto del Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Napoli Federico II, hanno rinvenuto anche una necropoli, i cui arredi funerari sono oggi conservati nel Museo Irpino di Avellino.

 

 

 

 

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Il territorio

l territorio di Montella è ricco di boschi, che, specialmente in passato hanno rappresentato un’enorme risorsa.

RISORSE BOSCHIVE

Il territorio di Montella è ricco di boschi, che, specialmente in passato hanno rappresentato un’enorme risorsa. Si ricorda ancora di un recente passato il via vai dei muli che trasportavano il legname per i sentieri di montagna, le caratteristiche carbonaie, costituite da pile di legna disposte con grande maestria, che venivano accese per produrre il carbone da usare come combustibile. Nei boschi di Montella è possibile trovare una discreta varietà di funghi comestibili, come i gustosi porcini e i chiodini. Inoltre nel territorio è presente il Tartufo Nero di Bagnoli Irpino, paese limitrofo noto appunto per il suo tartufo (nome scientifico Tuber mesentericum), il quale è molto apprezzato per il suo inconfondibile aroma. Origano, fragoline, more e mirtilli sono altri prodotti che è possibile raccogliere nei boschi di Montella.

PASTORIZIA E TRANSUMANZA

Gli allevamenti di ovini e bovini rappresentano un’altra importante risorsa per Montella. Inoltre il contesto ambientale in cui vivono gli animali ne garantisce una carne gustosa, un ottimo latte e quindi ottimi formaggi. L’allevamento bovino di tipo brado è caratterizzato dalla transumanza del bestiame. Le mandrie sono costituite per la maggior parte da razza podolica puglese ed in minor quantità dalla razza bruno alpina e da prodotti di incrocio. Molti sono gli allevatori che praticano la transumanza. Gli spostamenti avvengono in base a contratti di fida pascolo con il Comune ove si intende far pascolare i propri capi. Gli allevatori di Montella effettuano in genere la transumanza di un migliaio di bovini verso i luoghi della Puglia. Il bestiame viene condotto nell’agro pugliese attraverso i trattori, all’inizio dell’inverno per ritornare sui pascoli locali tra la primavera e l’estate rispettando il calendario degli usi civici. Altri allevatori, la parte meno cospicua, effettuano la transumanza tra la Puglia e l’Abruzzo. Tranne che in rarissimi casi, la transumanza viene effettuata a piedi, attraverso i trattori, antichi sentieri demaniali che in origine erano larghi fino a 60 metri. Si percorrono fino a 30 Km al giorno per poi sostare in appositi recinti, costruiti lungo i trattori. Durante il periodo primaverile ed estivo gli spostamenti avvengono di notte, per evitare il caldo del giorno. Giunti a destinazione, cioè ai pascoli avuti in concessione, le mandrie finalmente sono lasciate libere di pascolare. In adiacenza ai pascoli in genere vi sono anche delle costruzioni utilizzate dagli allevatori come loro ricovero e come luogo di lavorazione di una parte del latte prodotto. La mungitura avviene manualmente. La produzione di latte è da considerarsi irrilevante perché il bestiame che si alleva è in genere destinato alla produzione di carne. Nella mandria viene immesso, per la monta, un toro ogni 50 vacche. I parti avvengono in modo naturale con intervalli di 15-16 mesi. L’alimentazione consiste prevalentemente dalla flora pabulare dei pascoli, integrata, durante il periodo invernale, con fieno, paglia e castagne di scarto. I pascoli, la cui qualità alcune volte è carente sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, sono prevalentemente costituiti da erba medica, sulla, trifoglio sguarroso e alessandrino, veccia, lupinella, favella consociala all’avena. Tra le graminacee sono considerale ottime foraggere l’Olium perenne, la Gaudinia fragilis, l’Agroslis alba.

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